«La Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna. La Parte Vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte Cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa Cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese».
Questo il comunicato che il 22 ottobre ha annunciato il rinnovo dell’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi. Una conferma non più solo per due anni come è stato finora, ma per quattro. Scadrà nel 2028. Segno di una crescente fiducia fra i due interlocutori seppur con attese diverse.
Il governo cinese auspicava di rendere permanente l’accordo in un momento di crescente tensione con l’Occidente (USA in primis) e coi suoi alleati in Asia. La Santa Sede attende invece verifiche ulteriori. In particolare l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Pechino, il riconoscimento di tutti i vescovi «illegali», la definizione del numero delle diocesi e la piena funzionalità delle relazioni.
La lentezza delle proposte di nomi per l’episcopato negli ultimi anni e gli spostamenti non concordati (l’ausiliare di Jangxi e il vescovo Shen Bin a Shanghai) hanno minacciato l’implosione dell’accordo (cf. qui su SettimanaNews). Si respirava un clima di sfiducia. «Lavoriamo su tempi lunghi – diceva uno dei protagonisti dell’accordo – e ci aspettiamo qualche frutto fra 30 o 40 anni». Si ipotizza che la resistenza cinese sia addebitabile al Fronte Unito (gestisce gli affari religiosi dal 2018 ed è in mano al partito) e all’Associazione patriottica cattolica piuttosto che al Ministero degli Esteri e al Governo.
Cambia il vento
Il vento è cambiato nel 2024 con tre nomine nei primi mesi dell’anno (ora sono 9 dal rinnovo dell’Accordo nel 2022; cf. qui su SettimanaNews), il riconoscimento legale del vescovo «sotterraneo» Melchiorre Shi Houghzen (quelli riconosciuti sono 8), il viaggio di giornalisti e accademici in Cina, quattro convegni dedicati alla Chiesa nel Paese (Milano, Roma, Macao), l’avvio di una università cattolica a Hong Kong, la designazione di due vescovi per il sinodo universale (anche se ne erano stati richiesti cinque) e, a fine settembre, la visita a Shanghai della delegazione vaticana (cf. qui su SettimanaNews).
Gli otto rappresentanti vaticani (provenienti dalla Segreteria di stato e da «Propaganda Fide», ora dicastero dell’evangelizzazione) e gli otto cinesi (ministero degli esteri e Fronte Unito) hanno lavorato tre giorni pieni in base a un ordine del giorno concordato.
Oltre ai dialoghi e all’incontro col vescovo locale, Shen Bin, e con i responsabili diocesani, i rappresentanti vaticani hanno potuto incontrare il clero e il vescovo Taddeo Ma Daqin che, dopo la nomina nel 2012, è stato rimosso dal governo diocesano per le sue critiche all’associazione patriottica ed è stato a lungo agli «arresti domiciliari» nel seminario. Mons. Claudio Celli, il più anziano e autorevole del gruppo vaticano, lo ha abbracciato davanti a tutti regalandogli una croce pettorale da parte del papa. Tutti hanno capito il messaggio.
La delegazione ha inoltre potuto celebrare al santuario mariano nazionale di Sheshan con un centinaio di persone presenti. Non era mai successo. Qualche celebrazione c’è stata in precedenza, ma non con la gente. Il gruppo ha inoltre incontrato il vescovo ausiliare di Pechino e il prossimo ausiliare di Shanghai.
Il clima disteso ha permesso a uno della delegazione di dire che l’esito «è stato meglio del previsto». L’ottimismo, espresso anche dal papa nel viaggio di ritorno dall’Asia il 13 settembre scorso («io sono contento dei dialoghi con la Cina, il risultato è buono anche per la nomina dei vescovi, si lavora con buon volontà») è stato confermato anche se tutti gli «attori» sanno che quello che ottengono è poco, che vivono di benevole concessioni per cose che sarebbero dei diritti.
E per quanto le concessioni si allarghino resta il divario di fondo.
Le opposizioni
L’accordo è visto con sospetto dalle cancellerie più impegnate nel contrasto alla Cina, a partire dagli Stati Uniti e da Taiwan. Supportati da quanti imputano alla Santa Sede il silenzio per le violazioni dei diritti umani che si consumano in Cina. A partire dalla repressone del buddismo tibetano fino agli uiguri musulmani e ai territori di Hong Kong progressivamente stretti dalla repressione del governo di Pechino.
Una opposizione che si alimenta dalle legittime denunce delle comunità «sotterranee», la cui figura di riferimento è il card. Joseph Zen, e di quanti lamentano la pretesa indebita della «sinizzazione» delle fedi.
Il senso positivo dell’accordo è quello di mantenere uno spazio seppur minimo per un dialogo istituzionale che si è interrotto bruscamente nel 1951 con l’espulsione del nunzio Antonio Riberi, di impedire il formarsi di uno scisma cinese che sarebbe prevedibile senza il controllo delle nomine dei vescovi (ce ne sono una trentina ancora da fare), di porre un interrogativo sulla pretesa egemonica assoluta del partito in ordine alla fede (e alle fedi).
L’opposizione del governo di Taiwan è legata all’indipendenza dell’isola sottoposta a minacce crescenti da parte di Pechino che si è ripromesso di riconquistarla nell’arco di pochi anni. Anche con la forza, se necessario. Le ripetute e clamorose manovre militari attorno all’isola lo attestano. La Santa Sede è uno degli ultimi stati occidentali a mantenere relazioni diplomatiche formali. L’apertura di una nunziatura a Pechino, per ora impensabile, sarebbe un segnale molto grave per loro. Per questo anche i più piccoli movimenti fra Cina e Santa Sede sono decifrati e valutati. E la forte presenza cattolica nell’isola partecipa della preoccupazione.
Sinizzazione
Sono indicative le parole pronunciata in sinodo dai due vescovi cinesi presenti. Il vescovo di Funing-Mindong, Vincenzo Zhan Silu, ha rivendicato l’identità propria della Chiesa cinese e le sfide pastorali. «Essere una chiesa sinodale intenta alla missione evangelizzatrice significa rispettare e ascoltare le voci di storie, culture e tradizioni diverse nel cammino di ricerca della metà ultima dell’umanità, che è Dio». Elencando poi alcune questioni urgenti: «Il modo con cui affrontare le sfide che i matrimoni misti presentano per l’educazione in famiglia; o in quale modo adattarsi alle leggi e ai regolamenti locali; o come risolvere la confusione che esiste nei laici tra credenze popolari e alcuni aspetti della cultura tradizionale».
È toccato al vescovo di Hangzhou, mons. Giuseppe Yang Yongqiang, affrontare il tema della «sinizzazione». «Noi seguiamo lo spirito evangelico del farsi “tutto a tutti”, ci adattiamo fattivamente alla società, la serviamo, aderiamo alla direzione della sinicizzazione del cattolicesimo e predichiamo la buona novella».
Ma cosa significa esattamente «sinizzazione»? Può essere declinata come inculturazione e questo non solo non crea problema ma è auspicabile. Ma può anche significare l’assorbimento della fede a giustificazione dell’indirizzo politico del partito.
È indicativo quanto sta succedendo per il buddhismo. Per decenni aspramente osteggiato è oggi legittimato, ma con la decisa esclusione del buddismo tibetano e della figura del Dalai Lama. Tra il 15 e il 17 ottobre si è celebrata la sesta edizione del forum triennale del buddhismo, sostenuta dal Fronte Unito e dalla associazione buddista cinese. Un evento solenne per testimoniare alle comunità buddhiste interne e dell’Asia un riconoscimento pieno, ma nel limite preciso posto dal partito e dalla sua ideologia. Come espressione di una «società armonica» e a garanzia contro derive già sperimentate, come l’arricchimento indebito di alcuni «maestri» o la commercializzazione dei culti.
Un impianto che non prevede la pluralità delle forme del buddismo e pretende di definire i suoi indirizzi spirituali. Una operazione assai più delicata e devastante se applicata al cristianesimo e al cattolicesimo in specie che non può certo accettare una manipolazione della Scrittura, un addomesticamento dei dogmi e una subordinazione della fede a un indirizzo politico.
Attorno al piccolo elemento costituito dall’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi girano questioni assai più ampie.